Archivio dell'autore: Gian Luca Diamanti

E se i dodicimila abbonati s’innamorassero di se stessi?

ternana
Ho in tasca l’abbonamento per la Ternana. Facile, direte voi, te l’hanno praticamente regalato. Però per prenderlo ho dovuto fare un paio di file, prenotazioni e soprattutto un atto di fede. Perché un atto di fede? Perché io ringrazio il presidente Bandecchi d’avermi fatto pagare solo 8 euro l’ingresso a tutte le partite della stagione, ma non posso certo dimenticare le nefandezze a livello sportivo e gestionale delle ultime due annate disgraziate. Che sono costate di sicuro più care a lui che a me, per carità. Ma per dargli fiducia ancora, ci vuole, appunto, un atto di fede. Perfino un po’ sconsiderata.

Però c’è questa novità: 12mila abbonati non li abbiamo mai avuti, neanche in serie A.  Che vuol dire? Forse niente, semplicemente un calcolo da furbacchioni: visto che l’abbonamento non ci costa nulla o quasi,  intanto mettiamocelo in tasca, poi staremo a vedere come vanno le cose.
Andare o non andare allo stadio, in fondo, poco cambia per chi ci ha investito dai 5 ai 12 euro, praticamente un aperitivo. L’ipotesi più realistica è dunque quella di una stagione così così, in uno stadio che raccoglierà di media si e no un terzo degli abbonati.

Da vecchio tifoso consentitemi però un ragionamento un po’ più eccentrico.
Quando andavo allo stadio, da ragazzino, la prima cosa che m’interessava non era la formazione, ma calcolare quanta gente sarebbe venuta quel giorno al Liberati. Mi sedevo al mio posto e aspettavo con ansia che lo stadio si riempisse. C’era, per me, una soglia minima di pubblico presente, sotto la quale la giornata allo stadio non la giudicavo divertente. Perché poi, a conti fatti, forse il tempo che passavo a guardare il pubblico in curva, ad ascoltare e cantare i cori, a conversare con il vicino, a provare a imprecare più forte degli altri, ad abbracciare chiunque dopo un gol, era più di quello che dedicavo a guardare le azioni di gioco.

Insomma, voglio dire, allo stadio ci andavo soprattutto per partecipare a una festa domenicale, coloratissima, insieme alla mia gente, in una specie di rito collettivo.

Ora, dopo molto tempo, la mia gente, i tifosi rossoverdi, i credenti in questa fede troppo spesso bestemmiata, hanno deciso, per calcolo o per un residuo d’amore chissà, di rispondere presenti, almeno virtualmente.

L’auspicio, il sogno è che i dodicimila abbonati s’innamorino di se stessi.
Cioè, vorrei che succedesse a tutti e dodicimila quel che succedeva a me da ragazzino: che almeno per questa stagione si abbia voglia di tornare allo stadio – anche se le Fere non andranno benissimo (ma in fondo naturalmente spero il contrario!) – magari solo per il gusto di ritrovarci lì, per guardarci tra noi, tra noi tifosi, per ammirare il Liberati pieno, per i suoi colori, per il suo casino, indipendentemente dal risultato, per dimostrare e dimostrarci che i più forti siamo noi, che partecipiamo a questa festa, che abbiamo voglia di stare insieme e di divertirci, fosse pure solo per salutare l’amico che non si vedeva più da tanto tempo nella “piazza”, o nell’arena del Liberati, di nuovo affollata, colorata, ribollente, che c’insegna – e c’ha sempre insegnato – che persino in questa città non ci sono solo tanti io, ma pure un noi. Almeno la domenica (anche se di domenica ormai si gioca raramente). Almeno allo stadio, la nostra piazza più bella.

Se non sapete chi sono, mi presento…

“Io sono la festa del popolo. Sono i colori splendenti di una città grigia. Sono vino e porchetta. Io sono il fumo e i fumogeni, lo sballo e la working class. Sono quella che piace ai vecchi e agli sbarbati, che quando passo faccio voltare verso di me diecimila teste. Sono le chiacchiere davanti ai bar di periferia e dal barbiere. Sono il sogno di un bambino che vuole essere lanciato in cielo dal papà. Sono una bandiera che filtra i raggi del sole dalla cima del pennone che sovrasta una fontana. Sono un improperio, una bestemmia, un lazzo e un pacchetto di noccioline. Sono abbracci e botte. Sono cattiva, sono volgare, ma te lo dico sempre in faccia. Sono un tormento e sono una passione. Sono un coro a due sillabe che cresce piano e diventa un ruggito, sono un rullo di tamburi e il suono di una tromba. Sono la foto in bianco e nero di un bel signore con un ciuffo di capelli bianchi, la giacca, la cravatta e un paio d’occhiali da sole. Sono una maglia sudata con il numero 21. Sono un pezzo di stoffa con la scritta “Dio c’è”. Sono una colonna interminabile di pullman colorati. Sono un pizzico e un mozzico.
Sono una donna con gli artigli. Sono una che sputa fuoco. Sono rossa e verde.
Sono una fera. Sono la ‪#‎Ternana‬.
Sono il vostro orgoglio, o la vostra rovina. Presidenti, ragionieri, giocatori, allenatori mi staranno vicini per un po’: un anno, due, tredici. Ma passeranno.
Invece io ci sarò sempre, finché vi fermerete a guardarmi mentre cammino e mentre corro, lanciando un fischio, un applauso, o una battuta. Fatelo ancora: mi piacete così…”.
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La solitudine dei numeri uno

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Almeno in inglese si chiama goal-keeper, e non si confonde con portiere d’albergo. Certo il numero 1 – che oggi non è più neanche il numero 1 – pur essendo il numero più basso, nel gioco del calcio è davvero il più pesante da portare sulle spalle.
E sì, perché – fateci caso – quando si parla di schemi si dice 4-4-2, oppure 4-3-3. E la somma fa sempre 10. Ma come? Al calcio non si gioca in 11? Sì, ma il primo giocatore sta da solo e c’ha un’altra maglia. Aspetta tra i pali la sua sentenza. Se la prende (la palla) è un campione, se non la prende è un brocco. Chi sbaglia da solo sbaglia per tre. E’ la triste condanna del portiere/goalkeeper.
Un difensore può anche sbagliare quattro interventi a partita, magari però ne fa dieci buoni e prende la sufficienza. Il portiere non ha molte occasioni per mettersi in mostra. Se sbaglia paga, e con lui tutta la squadra.
E così, prigionieri di queste nevrosi, condannati ad attese snervanti, per cercare di non essere schiacciati dalle responsabilità, molti portieri – a differenza dei loro colleghi con i numeri più alti sulle spalle – si sono dovuti formare delle personalità forti. Magari lo hanno fatto con il tempo, segnati dalle esperienze e dai goal subiti, dagli sfottò dei tifosi ospiti, sotto la curva dei quali sono costretti a stazionare per 45 lunghi minuti, diventando il loro bersaglio preferito.
I giovani portieri, come i nostri Sala e Brignoli, non si può pretendere che crescano troppo in fretta. Devono costruirsi la loro corazza.
Come quella che indossavano tanti ex numeri 1 rossoverdi (quando ancora il portiere aveva il numero 1). Da Primo Germano che, a viale Brin, giocava letteralmente, con una città alle spalle, considerando la grande tribuna di tubi Innocenti un metro dietro la porta, fino a Nardin, che in un Ternana-Atalanta d’altri tempi appese letteralmente al palo un giocatore bergamasco reo di spingere un po’ troppo in area. Quell’episodio gli costò un rosso diretto, e la maglia numero 1 finì sulle spalle del difensore Giovanni Masiello, che si mise in porta e la difese benissimo, tanto da lasciarla inviolata.
Portieri estrosi, portieri freddi, portieri-tifosi, portieri matti. Quanti ne abbiamo visti.
Abbiamo avuto anche un Renzi (prima ancora che l’altro Renzi, Matteo partecipasse alla Ruota della Fortuna), che in quanto ad estro non era secondo a nessuno nella magica Ternana di Lello Bello Sciannimanico, Doto e mister Tobia. Abbiamo avuto l’imbattibile gigante Di Sarno, nella difesa dei record della squadra di Clagluna. Abbiamo avuto il portiere tifoso Rosso-Verderame. Abbiamo avuto AgguantalapallaMusarra. Abbiamo avuto portieri-leader come Ambrosi. Abbiamo avuto portieri inguardabili e improbabili. Dei quali è meglio non parlare.
Adesso abbiamo i giovani Sala e Brignoli. Teniamoceli stretti, almeno fino alla fine di questo complicatissimo campionato. Poi discuteremo su come ricordarli.

Gian Luca Diamanti
TernanaNews 21.3.2015

L’Entella, la Giacomense, il Derthona e l’Halleluja nel misterioso atlante del calcio

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Se giri il mondo e sei un appassionato di calcio, puoi trovarti a tifare per l’Halleuja FC, squadra tutta cristiana della Corea del Sud, oppure per il Pelè FC, squadra nata in Guyana, in onore al più grande giocatore brasiliano. In Italia invece, di squadre con i nomi strani non ce ne sono molte. Per essere originali è sufficiente non adottare il nome della propria città d’appartenenza. Facile, se ti chiami Juventus, Lazio, Sampdoria o Inter. Già un pelino più complicato se sei l’Atalanta, che qualcuno, poco esperto di calcio, fatica a collocare al suo posto, cioè Bergamo, nella cartina geografica.
Le cose, naturalmente, si fanno ancora più difficili, ma anche maledettamente più affascinanti, nelle serie minori. Almeno per chi conserva un po’ di fantasia e di curiosità.
Chi collezionava figurine negli anni ’70 non dimentica i nomi strani delle squadre collocate nelle ultime pagine dell’album Panini, quelli dedicati alla serie C.
Di dove diavolo sarà ‘sto Derthona, dal nome così esotico?
E via, di corsa, a controllare sul dizionario, che Internet allora era un nome ancora più strano di quello del Derthona di Tortona.
Se mi dai la figurina della Spal, ti spiego cosa significa!
Eccola!
Eccoti la spiegazione: Società Polisportiva Ars et Labor.
Caspita! Bravo! E come fai a saperlo.
Niente, me l’ha detto mia sorella che l’ha letto sulla Settimana Enigmistica, su “Forse non tutti sanno che…”.
Ammazza che intellettuale, tua sorella…
Ma senza scomodare le sorelle, ci sono altri nomi di squadre che non è difficile scordare. Che pure hanno qualche favola da raccontare. Come quella della Virescit Boccaleone di Bergamo, che dall’oratorio arrivò a sfiorare la serie B nel 1988. O come quella dell’Entella, la squadra di Chiavari, che porta il nome del suo fiume capriccioso e pericoloso per le inondazioni. L’Entella, che da questa stagione è la 123° matricola della serie B, martedì arriva a Terni per la prima volta, per aiutarci in geografia e speriamo anche per regalarci qualche prezioso punticino.
Mai più potremo vedere, invece, un match con la Giacomense, la squadra di una frazione, Masi San Giacomo, che nel 2013 si è fusa con la Spal per consentire alla società di Ferrara di ripartire almeno dalla seconda divisione dopo il fallimento ed è dunque entrata nel novero delle squadre estinte (un po’ come le contrade estinte al Palio di Siena), al pari della Cuoiopelli di Ponte a Cappiano, frazione di Fuceccchio, o – per altri e ben noti motivi – dell’AC Dalmazia di Zara, o della Fiumana.
E se tutta Italia, grazie (anzi per colpa) di Lotito, riscopre la geografia minore andando a cercare sull’atlante (oppure su Google maps…) Carpi e Frosinone, ai veri tifosi non può che continuare a piacere il calcio delle provinciali di lusso, le prime scalate degli anni Settanta, quelle del Catanzaro, dell’Ascoli, del Cesena, della Ternana.
E se quest’anno sarà il turno del Carpi, bene così, alla faccia dei diritti televisivi e di Lotito. In quanto all’Entella, la simpatia ricomincerà da sabato prossimo.

Tesser, la Ternana e i beni comuni della città

Ha giocato con Zico e ha fatto per sette anni l’allenatore nel settore primavera. Poi Attilio Tesser da Montebelluna ha cominciato a sedere sulle panchine di società professionistiche. Prima ha preso qualche scoppola, intesa come esonero, ma subito dopo c’è stato il magnifico doppio salto in avanti con il Novara che gli è valso la serie A e la Panchina d’Argento. Infine eccolo catapultato a Terni, in uno dei tanti momenti difficili della gestione Longarini. Ma, con il senno di poi, si può dire che è stato l’uomo giusto al momento giusto. E forse anche nella città giusta.

Mercoledì scorso, con il suo aplomb, giacca scura, camicia bianca rigorosamente senza cravatta, si è preso gli applausi di una platea di giornalisti dopo aver parlato di calcio e comunicazione in uno di quei seminari nei quali di solito l’unico rumore che si sente è quello degli sbadigli. Invece Tesser ha tenuto tutti inchiodati alle poltrone, raccontando il suo calcio e quindi il suo modo d’intendere la vita, con sincerità, concretezza, molto buon senso e passione misurata. Molto british style, insomma.

Ad un anno e qualche mese dal suo avvento sulla panchina rossoverde, nessuno mette in dubbio le sue capacità nel risolvere i problemi e il suo carisma. Un carisma che si esplicita soprattutto nell’abilità di rapportarsi con gli altri, con la sua squadra, con i media, con la città. Tesser ama parlare di tecnica e sa che in campo, nel calcio, si gioca una partita a scacchi ad altissima intensità che richiede preparazione, attenzione e capacità di adattamento. Ma dice che la partita non si vince se prima non si costruisce il gruppo, se – insieme ai giocatori – non si condividono obiettivi e valori. Dice che per costruire consenso e appartenenza all’interno del suo gruppo, tra democrazia e autoritarismo preferisce usare l’autorevolezza. Rispetto da dare e rispetto da ricevere. Valori e obiettivi condivisi, appunto. Tutto questo fa la forza di un gruppo. Quello sul quale si regge, finora, il buon campionato della Ternana, nonostante i tanti esordienti, nonostante i pochi ricambi, nonostante gli infortuni, nonostante…

Se poi a Tesser gli fai notare che in questi mesi lui e il suo gruppo sono stati capaci di creare un ottimo rapporto con la città, oltre che con la tifoseria e con i media, ti risponde che non è vero, o almeno che non è successo intenzionalmente, che lui ha sempre parlato solo con i suoi giocatori e, al massimo, con i giornalisti. E che non è suo compito parlare con la città. Ma poi ti dice pure che in poche città come a Terni si sente ancora così forte il legame identitario con il calcio. E con l’acciaieria. D’altra parte, durante la vertenza Ast e proprio nel bel mezzo del lunghissimo sciopero, la versione italiana dell’Huffington Post riportava una dichiarazione di Tesser di questo tenore: “Qualsiasi cosa potremo fare noi la faremo. Detto senza retorica. Spero tutto si risolva positivamente per Terni. Le acciaierie sono un elemento importantissimo, per questa città, il luogo in cui qua è nato il calcio”.  E non sono dichiarazioni scontate per un professionista del pallone, gente che spesso vive in un mondo separato. E invece no. Tesser usando un po’ di understatement sposta semmai i meriti su capitan Fazio. “Lui sì che sentiva davvero sulla pelle la vicenda degli operai”. Certo – dice il mister – se una squadra, o anche solo una parte di essa – capisce quale sia lo spirito della città che rappresenta e la situazione che sta vivendo, ha anch’essa qualche arma psicologica in più, quando scende in campo”.

Una volta il giornalista Maurizio Barendson, parlando della Ternana di Corrado Viciani, disse di non aver mai visto una squadra così immedesimata con il suo ambiente e con la sua città. Sono passati più di quarant’anni da allora. Nei mesi scorsi la Ternana di Tesser è andata in viale Brin in mezzo ai presidi degli operai ed è scesa in campo con i caschetti in testa. “Siamo al fianco di queste persone che lottano per i loro posti di lavoro, per le loro famiglie, per il loro futuro”, diceva in quel periodo il capitano rossoverde Lito Fazio. “Se l’azienda confermasse i licenziamenti sarebbe una tragedia. La nostra squadra sarà sempre accanto ai lavoratori, se non fisicamente con il cuore”. Ma non è solo questo. La Ternana, grazie anche ai ternani che lavorano ancora al suo interno, in questi mesi è tornata a vivere la città. In tanti modi. Ad esempio mentre mercoledì Tesser parlava ai giornalisti, i ragazzi che domenica scenderanno in campo contro il Latina si sono trasformati in spazzini e giardinieri per ripulire il parco dell’ex Foresteria in corso Tacito. Una piccola attenzione alla città ed ai suoi spazi pubblici che fanno parte di quei beni comuni dei quali tanto si parla in questo periodo di crisi e verso i quali si torna a porre attenzione, cercando di andare oltre la deriva dell’individualismo. cco, Terni è una città alla costante ricerca di una sua identità, ovvero delle sue identità. Una città che ha bisogno disperato di riscoprire un modo di vivere insieme ed i suoi beni comuni, senza i quali rischia di implodere. Tra questi beni comuni non ci sono solo i giardini pubblici, ci sono anche tutti quegli elementi che fondano il senso di comunità. Come ad esempio la festa settimanale che raccoglie migliaia di persone intorno ad una squadra di calcio. Tesser questo sembra averlo ben compreso. E prova a trasmetterlo a chi gli sta vicino. Perché, come si suol dire, l’interesse è reciproco.

Tra tanti allenatori che sono passati da queste parti, ci ricorderemo di lui, negli anni a venire, non solo per il modulo di gioco. E speriamo che anche lui, quando se ne andrà (il più tardi possibile!) si porti sempre dentro al cuore un po’ di Terni. E non solo per le partite giocate al Liberati e per i punti presi in classifica.

di Gian Luca Diamanti

Lo stadio è un animale

Nella vita reale si sentono gli odori. Succede anche negli stadi e sui campi di calcio. In televisione, no. Nelle dirette Sky, purtroppo, gli odori non arrivano. Ancora. Però ci dovrebbero pensare. Perché è un peccato per chi sceglie di restarsene a casa a seguire la partita della sua squadra del cuore sdraiato sul divano. Forse, in quella posizione, gli arrivano gli odori del sugo che bolle in cucina. Ma chi ha frequentato un po’ gli stadi sa che non è proprio la stessa cosa.

Lo stadio è un animale: è terra, è erba tagliata di fresco, è folla. E’ gli odori di tutte queste cose che si mescolano. Una volta era anche l’odore rassicurante di noccioline tostate e sbucciate. Poi quello acre dei fumogeni e quello irritante dei lacrimogeni. L’odore di polvere pirica dopo l’esplosione di un petardo, prima dei Daspo.

Lo stadio è anche il susseguirsi delle stagioni, che davanti alla tv di Sky si avverte molto di meno. E’ l’odore delle prime piogge autunnali che ti fa capire come sia arrivato il momento di rimettersi a lavorare dopo la pausa e i sogni dell’estate. Il tempo di cominciare a mettere fieno e punti in cascina per far crescere le speranze e la classifica. Dopo la semina d’autunno, arrivano i profumi dell’inverno, l’umidità, il freddo che fa serrare le fila dei tifosi. Infine il tempo della raccolta, la primavera; quando si fanno i conti per sistemare la classifica, per strappare la sospirata salvezza, per conquistare la promozione, o la vittoria inseguita da tanto tempo. E’ comunque la stagione degli odori forti, anche allo stadio; del sudore di chi ti esulta vicino (ed è l’unica volta che riesci a sopportarlo senza storcere la bocca), di chi ti abbraccia per festeggiare insieme.

Lo stadio è un animale. Anche per i rumori che fa. Nessun sistema dolby surround riuscirà mai a rendere il boato della folla dopo un gol come lo sente chi sta dentro il catino di uno stadio. Nessun impianto hi-fi ti farà sorridere come quando senti dal vivo i lazzi dei tifosi della curva dietro al portiere avversario al momento del rinvio. Nessun impianto per quanto sofisticato è in grado di rendere l’emozione di un coro d’incitamento che parte dalla curva e s’impossessa poi di tutto lo stadio fino a diventare un ruggito.

Per tutto questo lo stadio è e resterà sempre un animale, che – in quanto tale – non sarà mai in grado di farsi intervistare dai microfoni di Sky. Al limite potrebbe rilasciare un ringhio. Oppure un ghigno. Ma sempre animalesco.
Gian Luca Diamanti
per Ternana News 17.1.2015
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Il West Ham e le risate della curva ovest del Liberati

La scorsa stagione il West Ham ha perso 0 a 6 in casa del Manchester City. Un brutto periodo per gli Hammers, ma i tifosi dei Martelli non si sono scoraggiati. In faccia agli avversari, a fine partita, hanno cantato così: “We loose every week/we loose every week/u’re nothing special, we loose every week”. Ovvero: “Perdiamo ogni settimana e voi, dunque, non siete niente di speciale”. Che cavolo vi festeggiate?
Ironia meravigliosa, che ha strappato risate e applausi anche ai tifosi nemici.
Tutto questo per dire, cosa sarebbe il calcio senza goliardia? E in quanto a risate da stadio non è che i tifosi delle Fere siano da meno di quelli degli Hammers. Con i quali, peraltro, condividono diverse cose: lo spirito da working class, un giocatore ternano d’adozione come Paolo Di Canio che vestì con grande onore la maglia celeste granata e – infine – un’origine d’acciaio, tanto che i tifosi della squadra londinese del West Ham preferiscono sentirsi chiamare con il soprannome di Irons, visto che agli inizi la squadra si chiamava Thames Iron Works F.C..
Certo, forse l’ironia ternana è un po’ più greve dello humour britannico. Ma proprio per questo colpisce pesante, più di un martello, come si è potuto apprezzare anche nel corso della recente e drammatica vertenza dell’acciaieria. Prove documentate si possono raccogliere nelle splendide puntate della trasmissione di Zoro, Gazebo, dedicata agli operai ternani e alle loro battute stratosferiche.
Ma – tornando al calcio – negli anni Ottanta c’era, al Liberati, una curva un po’ più ribalda delle altre. Non tanto per la capacità di fare tifo e sostenere la squadra del cuore. Per quello c’era la Est, imbattibile. Ma in curva Ovest, per qualche anno si radunarono goliardi scanzonati e tifosi criticoni. Lì, si andava più che per fare il tifo, per vincere la gara della battuta più divertente. Che magari non arrivava neanche in campo. Ma l’importante era che la sentissero gli spettatori più vicini, gli amici dello stadio. E siccome, specie nei primi anni Ottanta, di soddisfazioni la Ternana non ne dava granché, i bersagli preferiti della curva Ovest erano proprio i giocatori con la maglia rossoverde.
Tra inviti a staccare la roulotte ad attaccanti giudicati troppo lenti e considerazioni non proprio benevole su come passassero le nottate alcuni difensori che apparivano un pochino confusi, una volta i giornali del lunedì registrarono un accorato appello di un centrocampista della Ternana, tale Pasqualino Borsellino, siciliano, scoperto qualche anno prima nelle giovanili del Palermo – guarda caso – da Corrado Viciani.
Borsellino, che tra l’altro era sempre tra i migliori tra l’81 e l’83, quel giorno era un po’ offeso. “Vi prego – dichiarò ai giornalisti – fate sapere una cosa ai tifosi della curva Ovest: ci sta bene se ci fischiano e magari pure se c’insultano. Però, per favore, non ridete e non sghignazzate se sbagliamo un pallone! Dal campo si sente e non fa un bell’effetto!”.
Nessuno naturalmente lo prese in parola. Anche perché – probabilmente – le risate erano nient’altro che la risposta a qualche battuta lanciata in curva, come al cabaret.
Ce ne vorrebbe un po’ anche oggi di quest’ironia e di questa goliardia. Magari per far sapere all’arbitro che stiamo per battere il record italiano. Per carità, non si azzardasse a concederci un rigore. Vorremmo almeno finire il girone d’andata senza penalty a favore. Poi, nel girone di ritorno, ci attrezzeremo per il record mondiale.

Il coro dei tifosi del West Ham

Gian Luca Diamanti per Ternana News del 24 dicembre 2014
West Ham United v Bolton Wanderers

L’otorino Bojinov e i delinquenti prestati al calcio

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Sui social a volte spuntano strane pagine. Ad esempio c’è un gruppo dedicato ai “Delinquenti prestati al mondo del pallone”. E’ una rassegna di giocatori che in campo hanno combinato qualcosa contro le regole, ovvero non sono proprio in sintonia con il fair play. Perché sì, la sportività è importante, ma a volte qualche trasgressione ci sta bene. E’ il sale nella pietanza sempre più insipida e omologata di questo calcio moderno, tutto telecamere e falso buonismo, dove non sono più ammessi neanche i cori di discriminazione territoriale e – forse – a breve si potrà imprecare, ma solo usando termini come accipicchia e mannaggia la pupazza (un po’ al limite della multa, quest’ultimo).

Per fortuna però questo momento non è ancora arrivato. E così è capitato che nella pagina “Delinquenti prestati al calcio” abbia fatto furore il gesto delle orecchie che l’otorino Bojinov ha mostrato alla curva Nord del Perugia, in occasione del suo gol nel derby di novembre.

Un gesto apprezzatissimo dai tifosi delle Fere, ma anche dai seguaci del gruppo Facebook in tutta Italia, che peraltro sono più di 350mila. Tanto che, in pochi minuti, il video di Valeri a Perugia, ha raccolto centinaia di like e di commenti più o meno gentili. Ma, d’altro canto, gli iscritti ad un gruppo che si chiama “Delinquenti prestati al mondo del pallone” non possono certo essere dei teneroni.

Comunque la si pensi il bulgaro sta dimostrando di essere un calciatore ancora capace di stare in campo e soprattutto un uomo vero, con pregi e difetti, ma senza troppe finzioni, come piace a noi.

Certo è che nella galleria dei delinquenti prestati al calcio, in retrospettiva, meriterebbero di essere inseriti diversi altri rossoverdi: primo fra tutti (anche per numero di giornate di squalifica ricevute) l’indimenticabile Esposito che nell’insignificante Ternana-Angizia Luco del 1988, a causa di una gomitata ricevuta da un avversario, si trasformò per 40 interminabili secondi in un lottatore di wrestling, colpendo l’avversario con calci e pugni per passare poi al bastone, forse meditando di chiudere con un laccio californiano, se non fosse stato bloccato prima. Ma i delinquenti in quel caso non stavano solo in campo, perché di fronte a quella scena di inaudita violenza, dagli spalti si sentivano incitamenti del tipo “Finiscilo!” e forse qualcuno stava già mostrando il pollice verso, proprio come al Colosseo. Ignoranza allo stato puro. Come quella di chi, sempre in quei formidabili anni Ottanta, in un memorabile (non certo per il livello del gioco) Ternana-Monopoli, pensò bene di scalare il fossato tra la curva e il campo, appostarsi dietro i tabelloni della pubblicità e approfittare del momento buono per sbucare alle spalle del guardialinee colpendolo violentemente sugli zebedei e facendolo praticamente saltare in aria. Tre giornate di squalifica al campo e una visitina al pronto soccorso per il collaboratore dell’arbitro che si dovette sentire un po’ in colpa, perché in fondo il responsabile dell’ira del tifoso era lui e non quello con la bandierina.

Ma tant’è: tra la violenza spiccia di quei decenni e il perbenismo di oggi che ci costringe ad entrare allo stadio in punta di piedi e con il Borghetti stappato, continuiamo a preferire delinquenza e ignoranza in piccole dosi omeopatiche e, dunque, il sano sfottò dell’otorino (così brillantemente ribattezzato dal prode speaker rossoverde Racioppa) Bojinov. Se non ci si può neanche prendere in giro, che ci si va a fare allo stadio?

Gian Luca Diamanti per TernanaNews 12.12.2014

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Viale Brin, la memoria non si licenzia

Terni,_stadio_Viale_Brin,_1938

(Ternana News 17 ottobre 2014) – In queste ultime settimane, in questi ultimi mesi, a tanti ternani è capitato di tornare a camminare per viale Brin. Non solo agli operai, ai lavoratori dell’Acciai Speciali Terni che rischiano i licenziamenti, non soltanto ai loro familiari. Anche a tanti altri che – nel bene e nel male – considerano la fabbrica una parte irrinunciabile della città e che hanno avvertito il bisogno di essere presenti davanti alle portinerie o sotto le finestre della Morselli a cercare di far sentire la propria voce insieme a quella dei diretti interessati.

Ma per arrivare lì, vicino alla palazzina degli uffici, occorre passare davanti a quell’incrocio, appena dopo la Fabbrica d’Armi. Non un incrocio come gli altri, almeno per chi ha superato gli “anta”.

E’ la strada che percorrevamo da bambini, emozionati, eccitati. Quella che ci portava in mezzo ai capannoni, sotto le ciminiere, ma soprattutto ci faceva avvicinare, passo dopo passo, alla Pista, al nostro vecchio stadio.

Nelle lunghe notti di questa difficilissima vertenza nella quale tutto sembra essere fuori controllo, ogni cosa pare passarci sopra la testa, decisa altrove, qualcuno ha avuto anche il tempo per un piccolo, inutile, insignificante pellegrinaggio. Di pochi metri. Fino a quel che rimane della Pista. Una curva parabolica, un pezzettino esiguo di memoria.

Perché al posto di quel vecchio stadio, che sta a Terni come il Filadelfia sta a Torino, negli anni Ottanta hanno pensato di costruire un parcheggio, lasciando in piedi solo il rudere di una curva. E forse i guai dell’acciaieria sono cominciati proprio da lì. Da quando cioè ha iniziato a spezzarsi un rapporto con la città talmente stretto da far sì che perfino lo sport più amato, il calcio, fosse quasi da considerare come un ulteriore prodotto della fabbrica, tanto quello stadio – costruito grazie ai contributi dei lavoratori dell’acciaieria – era parte della fabbrica stessa.

Il tempo è passato, le scelte sono state fatte, il mondo è cambiato e la Pista è diventata un parcheggio, senza neanche un cartello, o una lapide a ricordare cosa c’era lì e quante emozioni si siano concentrate in questo luogo.

Eppure, sarebbe stato bello se i giocatori della Ternana, oltre ad aver compiuto lo splendido gesto di recarsi a testimoniare la loro vicinanza ai picchetti degli operai, fossero poi stati accompagnati a visitare quel rudere lì accanto. Un rudere, quello del vecchio stadio, che quasi come tutte le vecchie cose in disuso nasconde un incubo e un sogno.

L’incubo è quello di dover tornare tra venti o trent’anni a vedere cosa resta della grande acciaieria, così come adesso facciamo per lo stadio di viale Brin. Il sogno è che anche quel ricordo, quello dello stadio di viale Brin, dia più forza alla lotta di questi giorni e la dia pure a chi oggi indossa quelle stesse maglie che tanti anni fa s’infangavano sul terreno, spesso non verdissimo, della Pista e faccia capire loro, cosa quelle maglie rappresentavano e possono tuttora rappresentare.

Gian Luca Diamanti

Naturalmente allo stadio si va armati

I derby sono partite a sé. Lo sappiamo a Terni e lo sanno a Torino.

Anche certi libri sono partite a sé, che non c’entrano nulla con il campionato…pardon con i cataloghi delle case editrici.

Per Rizzoli è appena uscito “Ma in seguito a rudi scontri”, l’ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia, scrittore fuori dagli schemi e sfegatato torinista.

Il derby è il derby”, dice uno dei due protagonisti, il sottotenente della Folgore repubblichina Ermanno Zazzi, mentre per le vie di una Torino spettrale accompagna il suo amico e kamaraden delle SS Franz Rubesh a vedere il più drammatico Torino-Juventus che si ricordi, il primo aprile 1945, allo stadio Mussolini, negli ultimi giorni della RSI.

“Naturalmente allo stadio si va armati”, dice lo Zazzi a Rubesh.

Il derby è il derby e Culicchia è Culicchia. Così questo romanzo due volte politicamente scorretto, per come tratta il tema del calcio e per come affronta le tragedie della guerra (dal bombardamento di Dresda, alle atrocità del fronte russo) e gli ultimi giorni di due soldati che i vincitori collocheranno “dalla parte sbagliata delle storia”, diventa di difficile classificazione, ma resta di gradevole e spedita lettura, sia per lo stile talmente lieve tanto da rischiare in alcuni passaggi di trasbordare nella superficialità, che per il taglio usato dall’autore, tra la tragedia, la farsa e il grottesco.

Ma ci sono verità profonde e scomode che – a volte – solo i guitti riescono a dire. La principale – almeno dal punto di vista calcistico – corrisponde alla frase “allo stadio si va armati, naturalmente”, e riporta all’attualità. Non è un incitamento alla violenza, ma lo è di certo alla faziosità e alla passione, elementi senza i quali il calcio muore.

Di fronte a slogan come quello che ci propina Mediaset, “I veri tifosi stanno su Premium”, di fronte a leggi sempre più repressive, fin quasi ad essere liberticide, rispetto all’ordine a “non usare espressioni di discriminazione territoriale” dentro gli stadi, è vero, anche a noi – a volte – verrebbe voglia di rispondere con una bella raffica. Magari non di MP40, come vorrebbe fare lo Zazzi, ma di pernacchie, di sana goliardia, di colorato sfottò.

Con lievi mani, con lieve cuore la vita prendere, la vita lasciare. Alla faccia dei Daspo, degli striscioni ignifughi e del Borghetti attappato. In questa vita così amara, intristita e ingrigita, lasciate libera la nostra passione almeno di fronte al gioco, forse l’unico gioco, al quale ancora agli adulti è consentito prender parte. Un gioco però, in nome del quale, un fascista e un nazista possono anche salvare un partigiano, solo perché è della loro stessa fede calcistica.

E, infine, lasciateci sfogare con quelli dell’altra squadra. Quale altre squadra? L’altra squadra di cui lo Zazzi non riesce neanche a pronunciare il nome. Sì, forse la…la Ju… O piuttosto il…, il…, il Pe…

culicchia

Giuseppe Culicchia – Ma in seguito a rudi scontri – Rizzoli, 2014